Il fico sacro è una pianta caratterizzata da una forte natura invasiva. La sua peculiarità è quella di riuscire a crescere e imporsi sugli altri arbusti. Tutto questo grazie a radici vigorose che riescono a penetrare all’interno della struttura del vegetale già stabilito sul terreno, squarciandolo dall’interno.
Questo è il titolo che il regista iraniano Mohammad Rasoulof ha scelto per il suo ultimo lungometraggio, optando per un forte simbolismo che accompagna lo spettatore per tutta la durata del film.
La trama
Teheran, autunno 2022. Iman, capofamiglia e padre dai saldi e rigidi principi, viene progredito a giudice istruttore per la corte rivoluzionaria iraniana. A casa ad aspettarlo durante l’intera giornata ci sono la moglie, Najmeh, e le due figlie, Rezvan e Sana, costrette in casa a causa delle pericolose proteste sviluppatesi nella capitale a seguito dell’uccisione di Mahsa Amini.
Le tre donne vengono descritte nella loro quotidianità: non vediamo per questo motivo alcun velo, ma ci vengono mostrate con i loro capelli naturali. In maniera particolare quelli di Sana, la più giovane e ribelle, con una lunga e folta chioma riccia.
Assistiamo allo sviluppo di due narrazioni in antitesi: mentre il padre accetta passivamente il suo ruolo nella macchina del regime, costretto a condannare a morte persone innocenti, a casa le figlie coltivano idee completamente opposte.
Al loro fianco Najmeh, ancorata alle tradizioni e dedita al marito, non riesce a vedere, o perlomeno, dare spazio alla visione delle figlie. Osserviamo infatti Rezvan e Sana informarsi via Tik Tok e tramite VPN, a differenza della madre che segue le notizie dalla televisione e dai canali del regime.

E’ in questa immagine allegorica raffigurante le tre donne sul divano, così vicine apparentemente, ma così lontane tacitamente, che emerge in maniera limpida il divario madre-figlia. Il gap generazionale affiora così grazie al mezzo di informazione: il telefono, che diventa lo strumento, la chiave, la via di fuga per non allinearsi alla concezione del regime.
Il cambiamento nella narrazione si raggiunge quando la pistola che viene consegnata al padre per difendere la famiglia dagli attacchi e dalle proteste, scompare. Il sospetto che a sottrargli l’arma sia stata una delle tre componenti della famiglia attiva in lui un meccanismo oppressivo, fino a rendere le tre donne dei veri e propri ostaggi.
Si sviluppa in casa una dinamica conforme a quello che accade fuori dall’appartamento: nelle piazze, con urla e spari che accompagnano in sottofondo l’intero film. Le tre donne vengono quindi interrogate, viene fatta loro violenza psicologica, fino a quando le vigorose proteste costringono la famiglia a fuggire. Proteste che sembrano avvicinarsi sempre di più ai protagonisti della pellicola, quasi a simboleggiare l’arrivo inevitabile a un punto di rottura.
La fine de Il seme del fico sacro è sostanzialmente un inno alla libertà, in cui le tre donne tentano di fuggire da Iman, con le montagne iraniane sullo sfondo.
Vediamo per la prima volta Najmeh ribellarsi al marito e aiutare le figlie a non accettare con passività la loro condizione. Osserviamo finalmente tutte e tre le donne collaborare. Nonostante sia evidente il divario tra le due generazioni – con visioni e valori che rimangono immutati – questo si annulla in favore di una lotta più grande: quella per la libertà.
Il contesto e le riprese
Mentre stava terminando di girare la pellicola in Iran clandestinamente, il regista è stato condannato per un caso precedente a otto anni di carcere, al pagamento di una multa, alla fustigazione e alla confisca dei beni.
E’ così che Rasoulof è riuscito, due ore prima che la sentenza diventasse esecutiva, a inviare il film all’estero e scappare. Attraversando le montagne a piedi, ha superato il confine rifugiandosi in Germania, dove aveva già vissuto con la figlia. Non a caso il lungometraggio è stato presentato agli Oscar nella sezione di miglior film straniero sotto la Germania.
Di forte impatto emotivo è anche sapere come, oltre al regista, anche Mahsa Rostami (Rezvan), Setareh Maleki (Sana) e altre collaboratrici del film siano state costrette a fuggire dal paese, per il reato di propaganda contro il regime e per aver girato le scene del film a capo scoperto. Soheila Golestani (Najmeh) è stata invece arrestata.

Il film è stato girato quasi unicamente dentro l’appartamento, che funge da metafora anche per rafforzare il senso di soffocamento e prigionia che altrimenti non sarebbe colto nella sua completezza, ma anche a causa della clandestinità dell’opera, che ha reso necessaria la scelta.
All’interno della narrazione, Rasoulof inserisce clip inedite, filmate da lui stesso in precedenza per un documentario durante le proteste di Donna vita e libertà nel 2022: sono scene cruente, ma necessarie al fine del lungometraggio.
Il messaggio finale
Il regista con questa sequela di simbolismi ci vuole mostrare come sia possibile far vacillare la struttura istituzionale, che non sempre è così ben salda come viene dipinta. Tutto questo richiede però una collaborazione generazionale.
Risulta chiaro allora come il fico sacro si riferisca alle nuove generazioni, e che sia un appello e un cenno alla lotta in Iran che continua ininterrotta dal 1979. Una chiamata all’unione per riuscire finalmente a sfondare quella radice che da molto tempo ha preso il possesso di un paese che merita una rinascita.
La pellicola ci ricorda in maniera magistrale di come l’arte possa essere un mezzo di resistenza e cambiamento; il fico sacro diventa così un simbolo di speranza, resilienza e trasformazione.
A cura di Sara Scheda
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