Mio nonno si chiama Giorgio, ha 88 anni e al momento è ancora arrabbiato col povero Bisseck. Sabato prossimo, per la settima volta, guarderà la sua Inter in finale di Champions League. Lui che ha fatto in tempo anche a vederla all’atto decisivo della “Coppa Campioni”, come si lascia sfuggire ogni tanto. 1964, 1965, 1967, 1972, 2010, 2023, 2025: è tifoso-testimone di tutte le glorie e le sofferenze europee, ma non solo, dell’Internazionale. Dal back-to-back del mago Helenio Herrera e del mito Giacinto Facchetti alla dolorosa sconfitta di Istanbul, passando per Javier Zanetti che calzava la coppa dalle grandi orecchie come se fosse un cappello, anzi un “berretto”. La sua è una storia d’altri tempi, un amore per la propria squadra del cuore quasi anacronistico, di quelli che si limitano al sostegno per i propri colori preferiti e non sconfinano mai nell’odio gratuito per quelli altrui, una visione dello sport di chi, anche davanti alle giornate più amare, ti dice che a giochi fatti bisogna deporre le armi e fare i complimenti ai vincitori: “Basta, sono stati più bravi loro”. Altri tempi, appunto.
È la filosofia di chi ha calcato per anni i campi di calcio del milanese tra gli anni Cinquanta e Sessanta e, una volta appesi gli scarpini al chiodo, ha preso il timone di una società di provincia diventandone presidente. Una visione di tempi immemori in cui il mondo sportivo era alla rovescia, o forse semplicemente come dovrebbe essere: i terreni di gioco migliori erano quelli comunali e venivano prima i valori educativi, rispetto ai risultati. Come quella volta in cui un giovane Giorgio si trovò a giocare al posto del terzino titolare – cameriere impossibilitato a liberarsi dal lavoro per la partita del primo pomeriggio – per poi riceverne i complimenti: “Bedini lei è stato il migliore in campo”. Un aneddoto che racconta ancora con orgoglio.
La purezza dei sentimenti
Quello stesso orgoglio che ha sempre attraversato i suoi racconti da appassionato di calcio. L’emozione con cui mi ha raccontato tante volte della furbata di Peirò nella semifinale di quel 1965 che consegnò all’Inter il suo secondo sigillo europeo di fila. “Oggi non si può fare, vero?”. La gioia con cui ci teneva a ricordare che “Brehme calciava allo stesso modo col destro e col sinistro” e che, nella finale di Italia ’90, calciò il rigore poi decisivo per la vittoria della Germania col destro, a detta sua il piede debole. Ma quello sul vero piede forte di Brehme è un dibattito che tiene banco da anni e forse non metterà mai d’accordo gli appassionati di “pallone”. Per non parlare dell’ammirazione con cui decanta ancora i dribbling e i gol di Ronaldo il fenomeno. Nei suoi racconti mai una traccia di violenza, astio per i sostenitori avversari, cattiveria immotivata. Mai.
Forse è solo una delle tante storie di amore sportivo che si possono raccontare, ma è la storia di un legame puro e semplice, quello di un tifo genuino e reale per una squadra che non è così facile amare sempre e comunque. Per il suo essere “pazza”, per i suoi tonfi micidiali, per la capacità di mandare tutto in fumo in così poco. E al tempo stesso così facile da amare sempre e comunque. Per il suo essere “pazza”, per le sue conquiste da Davide contro i Golia del calcio europeo, per l’innato brivido di rovesciare le sorti di una notte in pochi memorabili attimi. “Nel bene e nel male” diceva Javier Zanetti riferendosi all’interista come “un innamorato cronico”.

Sogno un ritorno a quei tempi
Ecco, la storia di mio nonno è quella di un legame autentico che affonda le radici agli albori di una storia ben più grande, vissuta sempre nel solco della lealtà e del tifo buono, giusto, genuino che unisce e non divide, che fa sognare e soffrire, che a volte disillude e ferisce, che esalta e abbatte, fatta di attaccamento alla maglia e dignità. È proprio l’opposto di quel tifo che aliena molte persone dal calcio e dallo sport. Antitesi del gioco come palcoscenico su cui sfogare le proprie frustrazioni, angosce, insofferenze, questo tifo è l’immagine del gioco che rinsalda i legami, le parentele, le amicizie, dando un senso di cameratismo, di condivisione, di magia.
È un modo di intendere il ruolo di tifoso idealizzato, romantico e al contempo nostalgico, forse utopico. Però è proprio questo che andrebbe insegnato nelle attività sportive di base. Ogni bambino che si affaccia allo sport merita un nonno Giorgio che gli insegni come viverlo, che gli insegni la purezza degli occhi brillanti ogni volta che vede quel pallone, quella racchetta, quella pista, quello stemma, quei colori. In un mondo in cui tutto è polarizzato e divisivo, in cui l’agonismo che assale i tifosi di calcio viene progressivamente traslato in contesti in cui non deve esistere, abbiamo tutti bisogno di uno spazio che sia solo sentimento e sincera condivisione di esso. Lo sport nella sua forma più vera e pura è proprio questo: gioie, sofferenze, dolori, fierezza di sé o di chi ci rappresenta, onestà intellettuale. Puro. Semplice. Genuino. A volte per capirlo basta un tacito esempio, grazie nonno.
Nota: immagine di copertina generata con IA

Laureato in Comunicazione, Innovazione e Multimedialità all’Università degli Studi di Pavia. Appassionato di tutti gli sport, quelli che prevedono un motore sono ancora meglio, aspirante giornalista sportivo.
image sources
- 6443f7665742a2.03184368: Pinterval