“Io dico di no ad una violenza gratuita, ma dico sì ad una violenza calcolata”. È una delle numerose frasi disturbanti pronunciate con voce tonante da Benito Mussolini in “M – Il figlio del secolo”. La miniserie, diretta da Joe Wright e tratta dall’omonimo romanzo di Antonio Scurati, ripercorre l’ascesa al potere di Mussolini, dalla fondazione dei Fasci di combattimento nel 1919 fino al discorso del 3 gennaio 1925, considerato l’inizio del ventennio fascista.
A interpretare Mussolini e infondere alla serie quella carica che tiene incollati allo schermo è Luca Marinelli. Rompendo la quarta parete e rivolgendosi con uno sguardo tagliente direttamente al pubblico, l’attore incarna un leader che seduce lo spettatore e al tempo stesso si confida con lui, rivelandogli i suoi punti di vista.
Interpretare la parte del “cattivo” è pane quotidiano per gli attori, ma quando il cattivo è colui che si è macchiato di crimini che hanno segnato la storia, il lavoro diventa molto più complesso. Marinelli ha definito “umanamente ed eticamente devastante” calarsi nei panni di Mussolini e dover sospendere il giudizio nei confronti del dittatore che ha scritto una delle pagine più buie della storia italiana.
I primi episodi della serie raccontano la nascita del movimento inizialmente debole dei Fasci di combattimento, l’allontanamento di Mussolini dal mondo operaio e l’avvicinamento alle rivendicazioni borghesi, nonché il primo ingresso in parlamento. Poi, la marcia su Roma porta i fascisti al governo: ha inizio così la conquista di un potere sempre più assoluto. Oltre al piano politico, la serie esplora anche i rapporti personali del Duce, in particolare con le sue amanti.

Le donne di Mussolini
Mussolini così si prende tutto con la violenza. Anche le donne. A partire dalla moglie Rachele, che lui definisce la sua “colonna” e la cui famiglia non acconsentiva al matrimonio, ma che fu infine costretta a piegarsi alle minacce del Duce. Donna dal carattere forte, che rimane lontana dagli sfarzi del potere e sempre all’ombra del marito, pur consapevole dei tradimenti.
Margherita Sarfatti è invece una donna colta e ambiziosa. Affianca Mussolini durante la sua ascesa al potere ed è il suo mentore. Eppure neanche lei riesce a uscire dai confini che il leader fascista ha stabilito per lei, e viene accantonata nel momento in cui non è più utile al suo progetto.
Bianca, segretaria nella redazione del giornale di Mussolini, è la donna che incarna maggiormente la brutalità del potere del dittatore: viene violentata e resta incinta. Infine, c’è Ida Dalser, prima moglie di Mussolini, poi rinnegata assieme al figlio e rinchiusa in manicomio.
Il rapporto con le donne è il riflesso del modo in cui Mussolini concepisce il potere: totalizzante, violento e strumentale. I corpi femminili sono oggetto di conquista. Ogni figura ruota attorno a lui ed è funzionale al rafforzamento del suo culto personale.

Siamo davvero liberi di scegliere?
Gli ultimi episodi sono incentrati sul delitto Matteotti che, come sappiamo, viene rapito e ucciso dopo aver contestato gli esiti delle elezioni, considerate il prodotto di intimidazioni e violenze perpetrate dai fascisti. Quella di Matteotti non è un’opposizione basata solamente su un’ideologia diversa, ma si fonda su saldi principi etici e democratici che rifiutano l’esito di elezioni ottenute con la forza, volendo di fatto delegittimare il potere conquistato dal partito fascista.
Oggi è un’ ovvietà affermare che un risultato elettorale influenzato dalla violenza fisica non debba essere ritenuto valido all’interno di una democrazia. Tuttavia, il discorso di Matteotti resta attuale. Non si vedono più i manganelli, ma accade ancora oggi che le campagne elettorali siano influenzate da forme di manipolazione che spesso passano in secondo piano perché meno visibili o più subdole, e per questo sottovalutate. Disinformazione, fake news e narrazioni distorte sono in grado di orientare il consenso, indebolire il pensiero critico e condizionare il voto.
Ci troviamo di fronte a due modalità di manipolazione elettorale: una fondata sulla violenza fisica, le intimidazioni e le minacce; l’altra meno evidente, che fa leva sulle paure e sull’irrazionalità dei cittadini attraverso fake news, pregiudizi, bias cognitivi e l’omissione di informazioni. In entrambi i casi il risultato è lo stesso, ovvero l’orientamento del voto cittadino. Eppure, per il secondo tipo di manipolazione abbiamo delle soglie di tolleranza più alte. In parte perché la violenza fisica è più facilmente identificabile e condannabile. Ma se una campagna elettorale è permeata da disinformazione e fake news pervasive, possiamo davvero considerarne legittimi i risultati?
Per rispondere a questa domanda, facciamo un passo indietro di qualche anno, fino al 2016. Donald Trump conquista la Casa Bianca e, oltreoceano, la Gran Bretagna decide di uscire dall’Unione Europea. In entrambe le campagne elettorali si è assistito a una circolazione di teorie complottistiche e fake news come mai prima di allora. Nonostante la legittimità e la trasparenza dei processi elettorali siano state fortemente messe in discussione, gli esiti sono rimasti validi.
A spingere l’opinione pubblica in una direzione ben precisa è stata anche una propaganda politica realizzata grazie all’utilizzo dei dati personali degli utenti, spesso raccolti in maniera poco trasparente o addirittura illecita – come mostra lo scandalo di Cambridge Analytica, che ha rivelato quanto la manipolazione del consenso possa passare anche attraverso i social network. A partire dai dati raccolti, si crea un profilo psicologico del consumatore, che riceverà determinati messaggi propagandistici. Si rimane così chiusi all’interno di una bolla che esclude o scredita opinioni dissenzienti e, dall’altro lato, rafforza le proprie credenze: il cosiddetto bias di conferma, ovvero la tendenza a prendere in considerazione solamente l’opinione a cui già si crede. Questo tipo di manipolazione ha inizio con l’ingresso nel web di logiche capitalistiche e della possibilità di monetizzare i dati degli utenti; si è costituito un sistema che massimizza i profitti a scapito della veridicità dell’informazione e, quindi, del dibattito democratico.
Dal 2016 in poi abbiamo assistito a numerose iniziative mirate a combattere la disinformazione dilagante nel web, come i software di verifica o le pratiche di fact-checking per verificare le fonti e analizzare i contenuti dei messaggi. Anche il Digital Services Act promosso dall’Unione Europea si propone come uno strumento legale per garantire l’accesso a un’informazione trasparente e affidabile che, ricordiamo, è un vero e proprio diritto umano fondamentale. Occorre però far presente che, pochi mesi fa, Meta – proprietaria di Facebook e Instagram – ha deciso di abbandonare il fact-checking sui due social a favore di un modello meno stringente (le Community Notes), simile a quello già adottato da Musk per il social X. Secondo Zuckerberg, questo diminuirà la censura, ma alcuni esperti segnalano il rischio di un aumento della diffusione di contenuti falsi e fake news.
Studi empirici dimostrano che le notizie false si diffondono con più rapidità e lasciano un’impronta più profonda nella mente di chi le legge rispetto a quelle vere. Questo accade perché rappresentano un elemento di novità e tendono a semplificare la realtà, facendo leva sull’emotività e sulle paure delle persone. E le notizie false più efficaci sono proprio quelle a tema politico. Informazioni ingannevoli o parziali, la diffusione consapevole di fatti alternativi e slogan infondati sono più frequenti laddove la fiducia nelle istituzioni è bassa; al tempo stesso, questi elementi ne amplificano la delegittimazione, creando un circolo vizioso che mina i processi democratici.
Più recentemente, sono stati sollevati dubbi riguardo alla legittimità delle elezioni tenutesi in Georgia nell’ottobre dello scorso anno, che hanno portato al governo il partito filorusso Sogno Georgiano. Cittadini, osservatori e persino il Parlamento europeo hanno contestato i risultati delle urne, ottenuti presumibilmente attraverso brogli e interferenze russe. Lo scontro politico nel paese è acceso, ma il governo mantiene una posizione ferma.
“M – Il figlio del secolo” ci trasporta indietro di un secolo, a un’epoca in cui manganelli, omicidi e minacce erano mezzi per la conquista del potere. Questo tipo di violenza, fortunatamente, non fa più parte della nostra democrazia; tuttavia, occorre mantenere alta l’attenzione verso quei meccanismi di potere meno visibili, ma non meno pericolosi.
“Guardatevi attorno. Siamo ancora tra voi”. Questa frase, pronunciata da Luca Marinelli con lo sguardo diretto allo spettatore, suona come una provocazione scomoda che ci fa sentire complici di forme di manipolazione che, troppo spesso, accettiamo o minimizziamo. È un collegamento con il presente reso ancora più esplicito nella quarta puntata, quando Mussolini riprende e rivisita lo slogan trumpiano esclamando “Make Italy Great Again”. La serie, quindi, costituisce un’efficace spinta a riflettere sulle dinamiche di ascesa al potere, ci chiama in causa e ci fa interrogare su quanto quelle logiche siano presenti ancora oggi, seppur mascherate.
Martina Albini
Fuoricorso è anche su Instagram!
image sources
- M_EP1_070223_2415: Rolling Stone Italia
- M_EP2_210323_3122-Migliorato-NR: Vogue Italia
- M il figlio del secolo serie tv 1: Vogue Italia