Negli ultimi tempi, camminare per la zona universitaria di Bologna, di giorno come di notte, ha assunto un sapore diverso. Un tempo cuore pulsante della vita studentesca, oggi via Zamboni e le sue diramazioni appaiono sempre più svuotate, controllate, sorvegliate. Eppure, nonostante presidi, telecamere e pattugliamenti, la percezione di insicurezza cresce. Perché?
Quello che viene definito “degrado” è spesso la semplice esistenza di soggettività che sfuggono al controllo, che non rispondono ai canoni del decoro. E così, per rispondere alle paure – reali o costruite – la governance cittadina e accademica continua a proporre le stesse ricette: più polizia, meno spazi aperti, meno possibilità di organizzarsi.
Ma ridurre la socialità non rende più sicurə. Al contrario, è proprio l’assenza di spazi collettivi, accessibili, vivi, a farci sentire più solɜ, più espostɜ, più vulnerabili.
La chiusura sistematica degli spazi di aggregazione – dalle biblioteche serali agli spazi autogestiti, dal controllo sulle occupazioni fino al soffocamento di iniziative spontanee in piazza – ha impoverito profondamente la vita universitaria. In nome della riqualificazione, si è distrutto il tessuto sociale che rendeva certi luoghi attraversabili. Un luogo è davvero sicuro quando ci si può fermare, quando si è visibili e riconosciutɜ, quando esistono reti informali di cura e protezione.
Invece, le risposte istituzionali alla violenza si limitano a trasformare il problema in una questione di ordine pubblico. Come se la presenza della polizia potesse sanare anni di isolamento, marginalizzazione, precarietà. Come se il controllo fosse più efficace della solidarietà.
Ma la sicurezza reale, quella che si costruisce giorno dopo giorno, non passa per la repressione. Nasce dalla possibilità di stare insieme, di non sentirsi solɜ, di poter attraversare gli spazi collettivamente. Le strade non diventano più sicure svuotandole, ma rendendole vive, attraversabili, piene di relazioni.
Riaprire gli spazi significa aprire possibilità. Significa permettere che la città torni a essere vissuta, attraversata, reinventata da chi la abita davvero. Contro ogni retorica emergenziale e securitaria, è urgente tornare a immaginare una zona universitaria costruita su pratiche di mutualismo, cura, solidarietà.
Una zona che non si limita a essere attraversata, ma che ci faccia sentire parte di qualcosa.