Musica e politica: un legame impossibile da spezzare

25 Giu , 2025 - Cultura

Musica e politica: un legame impossibile da spezzare

Risale a pochi mesi fa il via libera del ministero della Giustizia al processo contro Brian Molko, frontman della band inglese Placebo, per vilipendio delle istituzioni. Il cantante, durante un concerto a Torino, aveva definito Giorgia Meloni “fascista” e “razzista”, rivolgendole poi altri insulti, davanti a migliaia di persone. Pur essendo un episodio estremo, la vicenda offre uno spunto per riflettere sul rapporto tra musicisti e politica, considerando che la band inglese è da sempre conosciuta per le sue forti posizioni politiche e battaglie per i diritti umani.

Ma i Placebo non sono gli unici. Pensiamo ai Green Day che danno dell’idiota a George W. Bush nel 2004 e ora criticano Donald Trump, arrivando a cambiare ii testi delle loro canzoni più famose per inserirvi versi come “I’m not part of the MAGA agenda”. Ad affiancarli nell’aspra critica contro il tycoon, troviamo anche Bruce Springsteen e i Pearl Jam.

Un altro episodio recente che ci fa riflettere ha coinvolto Ghali durante il Festival di Sanremo. Lo abbiamo visto difendere la Palestina e chiedere uno stop al genocidio dal palco più famoso d’Italia. Criticato dall’Ambasciata israeliana a Roma, ha rivendicato il suo diritto – e dovere – di esprimersi liberamente sulla questione. In occasione della puntata di Domenica In su Rai 1 dedicata ai cantanti in gara, la conduttrice Mara Venier, dopo il rinnovato sostegno di Ghali alla causa palestinese, ha letto un comunicato stampa dell’amministratore delegato della Rai a sostegno di Israele. Nella stessa puntata, Dargen D’Amico ha parlato di migranti, peraltro tema della sua canzone in gara al Festival, ma è stato fermato dalla conduttrice perché “qui è una festa, siamo qui per parlare di musica e per divertirci”. Allora sorge naturale chiedersi: ma la musica può o non può parlare di politica? Per Matteo Salvini la risposta è chiara, “i cantanti cantano, i ministri fanno”. Dopo le vicende di Ghali e Dargen, è stato addirittura proposto, da un membro del suo partito, un vero e proprio Daspo per gli artisti che usano i palchi per fare politica.

Eppure, sfruttare il palco per esprimere dissenso non è di certo qualcosa di nuovo. Basti pensare al punk, che dalla musica finisce per influenzare molte altre sfere, tra cui appunto la politica, sotto forma di una forte ribellione. Uno stile musicale grezzo e provocatorio che esprime tutta l’insoddisfazione e la rabbia verso condizioni sociali e politiche. Il suo picco possiamo rintracciarlo nella Gran Bretagna degli anni ‘70, un Paese in crisi economicamente e socialmente, con disordini e scioperi all’ordine del giorno. Alzi la mano chi non ha mai sentito una canzone dei Sex Pistols o dei The Clash, per citarne due. Questi ultimi in “White Riot” incitano alla ribellione contro l’oppressione della polizia e le enormi differenze di classe.

Nel loro mirino troviamo certamente anche la Lady di Ferro, Margaret Thatcher, e le sue politiche ultraliberiste. Non sono gli unici: Morrissey dei The Smiths, in un brano, arriva ad augurarle la morte e i Pink Floyd attaccano Thatcher e altri politici come Reagan, definendoli “incurabili tiranni” che prendono la guerra come un gioco.

Roger Waters, lo storico membro della band londinese appena citata, non ha mai smesso di battersi contro guerre e ingiustizie attraverso le proprie canzoni. Trasforma le esibizioni in manifesti politici, anche grazie a proiezioni e scenografie. Durante il suo ultimo tour ha proiettato frasi a sostegno del movimento Black Lives Matter, di Julian Assange e ha espresso solidarietà al popolo palestinese, gesto che gli è costato accuse di antisemitismo. Sono frequenti anche critiche molto dure a Trump.

Roger Waters durante il suo ultimo tour “This Is Not a Drill”

Anche le culture hip hop e rap presentano spesso una forte componente di critica sociale contro le ingiustizie. Pensiamo ai testi di Tupac, contro gli abusi di potere da parte della polizia nei confronti della comunità afroamericana, diventati simbolo del movimento Black Lives Matter. L’espressione artistica, in questo caso, non è fine a sé stessa, ma alimenta attivismo politico. Più recentemente, il brano “Alright” di Kendrick Lamar è diventato inno delle stesse proteste.

Quella tra musica e politica è una relazione che, come abbiamo visto, dura da sempre e chiederne una separazione è fuori luogo, oltre che impossibile. Le canzoni sono portavoce di messaggi, rappresentano generazioni.

Ritornando in Italia, la canzone d’autore svela frammenti di storia del nostro Paese e ha spesso alimentato dibattiti pubblici importanti. Pur non essendo espressione diretta di partiti, cantautori come De André, Gaber e Guccini hanno usato la loro musica come strumento per raccontare la realtà, denunciarla e farsi voce di ingiustizie sociali. 

Ai giorni nostri, Caparezza e Willie Peyote sono due delle tante voci impegnate che puntano il dito alle contraddizioni della società e della politica e per questo accusati di essere troppo diretti. Accuse a cui il cantante pugliese ha voluto rispondere con sarcasmo nel brano “Troppo politico”.

Fare musica, molto spesso, significa fare politica, schierarsi contro guerre, ingiustizie o più semplicemente esprimere le proprie posizioni. E spesso gli artisti godono del potere mediatico per far risuonare queste idee, farle circolare rapidamente in tutto il mondo e avere un impatto.

Tuttavia, la musica non necessariamente condanna chi è al potere. Anzi, può diventarne uno strumento funzionale. È il caso del rapper NBA YoungBoy, che ha ricevuto la grazia da Donald Trump dopo alcune condanne per possesso illegale di armi. Sembrerebbe essere una vera e propria strategia politica del presidente per ottenere consensi tra le generazioni più giovani e all’interno della comunità afroamericana. Il rapper che in passato aveva criticato Trump, ora lancia un tour dal titolo “Make America Slime Again”.

Ovviamente, sappiamo anche che le canzoni possono talvolta rappresentare solamente uno svago, una valvola di sfogo dalla vita, senza troppe pretese. E va bene così: spetta all’artista la scelta. Ma qualsiasi sia il contenuto, la libertà di espressione rimane il pilastro su cui poggia qualsiasi forma d’arte, anche se ciò può comportare un prezzo alto da pagare.

A cura di

Martina Albini

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