Il femminicidio non è un incidente. Non è una fatalità, né un “raptus” imprevedibile. È il frutto amaro di una cultura che, ancora oggi, tollera, giustifica e minimizza la violenza di genere. Ogni donna uccisa da un uomo che diceva di amarla non è solo una tragedia privata: è un fallimento pubblico, collettivo, sistemico.
L’omicidio di Martina Carbonaro, è il sesto dall’inizio del mese di maggio. Quattordici anni, uccisa ad Afragola dall’ex fidanzato diciottenne, sta scioccando l’Italia nelle ultime ore. Ma non possiamo permetterci di fermarci all’orrore. Dobbiamo domandarci: quante Martina ci sono state prima, e quante altre potrebbero esserci ancora?
Un sistema culturale che ancora assolve
Quando si uccide “perché mi ha lasciato”, non c’è amore, ma dominio, una concezione patriarcale della relazione, dove l’altro non è un essere libero, ma una proprietà da controllare. E se sfugge, si punisce: troppo spesso con la morte.
Questa logica non nasce dal nulla. È alimentata ogni giorno da un linguaggio pubblico che parla di “gelosia”, “amore malato”, “troppa passione”, svuotando il crimine della sua vera natura: violenza di potere. È il linguaggio che distorce la realtà e normalizza l’inaccettabile.
L’età così giovane della vittima, ma anche del suo carnefice, rende la vicenda ancora più dolorosa, e al contempo anche più rivelatrice: la violenza di genere non è un problema che nasce in età adulta, ma serpeggia già da molto prima. Nei modelli familiari, nelle fiction, nelle canzoni, nella scuola che spesso non educa al rispetto, all’ascolto, alla gestione delle emozioni. Insegnare l’educazione sentimentale non è un lusso, è una necessità democratica.
Ogni volta che normalizziamo il controllo, che minimizziamo i segnali, che diciamo “forse è colpa anche sua”, stiamo costruendo, o ignorando, una dinamica di abuso. Ogni silenzio è una complicità. Ignorare i segnali significa compromettere il contrasto alla violenza. Non dobbiamo aspettare il sangue per indignarci.
Il femminicidio non è un’eccezione nel nostro sistema, ma uno specchio fedele che ci restituisce l’immagine di un paese ancora incapace di garantire reale parità, reale protezione, reale ascolto.
E non servono solo leggi, che pure devono essere rafforzate, ma una trasformazione culturale. Serve che gli uomini parlino con altri uomini. Serve che le madri e i padri rompano il silenzio. Serve che la scuola torni a essere anche luogo di educazione civile, emotiva, relazionale.
Una rivoluzione necessaria
Martina non è un simbolo astratto. Era una ragazza, con sogni e paure, con una vita davanti. Il suo nome oggi è anche un impegno per tutti noi: non possiamo permettere che il prossimo femminicidio sia solo un’altra notizia di cronaca.
Dobbiamo cambiare linguaggio, cultura, giustizia. Perché non è un’emergenza: è un sistema che dobbiamo smontare, pezzo per pezzo.
E possiamo farlo solo insieme.
A cura di Sara Scheda
Lista dei femminicidi in Italia nel 2025 su FemminicidioItalia.info
FuoriCorso (@fuoricorso.bolo) • Foto e video di Instagram