A tutti penso sia capitato almeno una volta nella vita di trovarsi a discutere di cinema: qual è il tuo film preferito, qual è il tuo attore preferito, che genere ti piace di più, eccetera. Che la discussione avvenga tra cosiddetti “esperti” del settore o semplici persone che ogni tanto guardano un film, la gamma di nomi citati oscilla sempre tra due poli: da una parte le grandi star di Hollywood, i divi e le dive da red carpet, i blockbuster con budget miliardari; dall’altra il cinema d’autore, le opere di nicchia, gli attori “da festival”.

Ecco, per me, esattamente a metà tra questi due mondi, c’è Philip Seymour Hoffman. Un attore capace di muoversi con naturalezza tra universi diversissimi: da film hollywoodiani per definizione come Il talento di Mr. Ripley e La guerra di Charlie Wilson, a cult assoluti come Il grande Lebowski; o ancora da film sperimentali e a tratti deliranti come Synecdoche, New York, a blockbuster come Mission: Impossible III o The Hunger Games. In tutte queste pellicole, anche nei ruoli più marginali, Hoffman ha sempre lasciato un’impronta riconoscibile. Ogni volta che lo si vede recitare, si ha l’impressione che sappia esattamente quali tasti andare a toccare: quali gesti, quali espressioni, quale tono di voce adottare per rendere l’interpretazione il più veritiera possibile, senza mai risultare né artificioso, né incolore.
Oggi Philip Seymour Hoffman avrebbe compiuto 58 anni. Li avrebbe compiuti, se il 2 febbraio 2014 non fosse stato trovato morto nel suo appartamento di Manhattan, ucciso da un’overdose di speedball – un mix letale di eroina, cocaina e benzodiazepine. Lottava da tempo contro la dipendenza, come molti nel mondo dello spettacolo. Ma questo articolo non vuole soffermarsi sulla tragica fine di un grande attore. Vuole piuttosto rendergli omaggio, tentando di restituire, almeno in parte, ciò che Philip Seymour Hoffman ha dato al cinema in soli 46 anni di vita.
La sua carriera cinematografica decolla quando nel 1992 viene scelto per una piccola parte in Scent of a Woman, dove affianca Al Pacino. Ma è l’incontro con Paul Thomas Anderson a segnare davvero la sua parabola artistica: i due lavorano insieme in cinque film, dal 1996 al 2012. E ogni volta Hoffman si trasforma in qualcosa di nuovo, di irripetibile. Tra queste collaborazioni, due in particolare meritano di essere citate. In Magnolia (1999) è Phil Parma, un infermiere premuroso che si prende cura di un uomo morente. In un film popolato da personaggi sopra le righe, lui è la presenza gentile, silenziosa, empatica. Hoffman non alza mai la voce, eppure la sua umanità è la cosa che resta più impressa. Più di dieci anni dopo, in The Master (2012), interpreta Lancaster Dodd, il carismatico e ambiguo leader di una setta ispirata a Scientology. È un personaggio potentissimo, affascinante e inquietante, capace di passare dalla dolcezza paterna alla manipolazione più fredda nel giro di una frase. Hoffman riesce a mostrare la maschera e ciò che c’è sotto: l’insicurezza, la paura di non essere creduto, il bisogno disperato di controllo. È una delle sue interpretazioni più intense, e forse la più disturbante.
Il ruolo che gli vale l’Oscar – e la consacrazione definitiva – arriva però nel 2005 con Capote. Hoffman si cala nei panni del celebre scrittore Truman Capote durante la stesura di A sangue freddo, celebre romanzo-inchiesta caposaldo della letteratura americana del Novecento. Non si limita a imitarne la voce, le movenze, l’eccentricità: lo ricostruisce dall’interno, portando in superficie le contraddizioni di un uomo diviso tra empatia sincera e ambizione spietata. La sua interpretazione è chirurgica, intensa, profondamente sfaccettata.
L’anno successivo, in Il dubbio (Doubt, 2008), affronta un ruolo ancora più sfumato e carico di ambiguità: quello di padre Flynn, sacerdote accusato (forse ingiustamente) di intrattenere un rapporto inappropriato con un alunno. Accanto a una monumentale Meryl Streep, Hoffman non si lascia schiacciare dal peso del confronto, anzi: costruisce un personaggio al tempo stesso inquietante e profondamente umano, lasciando lo spettatore sospeso nel dubbio, senza mai offrire certezze, ma solo domande e inquietudini. Durante il film accade pochissimo sul piano dell’azione: è una sottile partita a scacchi giocata negli sguardi, nei silenzi, nelle sfumature emotive tra due mostri sacri del cinema come Hoffman e Streep.
Che fosse un prete o un guru, un truffatore, un agente segreto o un infermiere, Philip Seymour Hoffman non interpretava ruoli: li abitava. Il suo talento stava nella capacità di rendere credibile ogni personaggio, anche il più distante da lui. Non c’era una fisicità glamour né una voce calda e rassicurante: eppure, Hoffman era capace di dominare la scena con un gesto, con un’inflessione della voce, con un’esitazione dello sguardo.
Era un attore di sottrazione. Non cercava mai l’effetto, ma l’essenza. Non recitava per stupire, ma per scavare. E per questo, lasciava sempre un segno.
Se qualcuno mi puntasse una pistola alla tempia obbligandomi a scegliere una sola interpretazione tra le decine che l’attore ci ha regalato nel corso della sua carriera, sceglierei un film forse passato un po’ in sordina: Onora il padre e la madre (Before the Devil Knows You’re Dead), ultimo lavoro del maestro Sidney Lumet, uscito nel 2007. Qui Hoffman interpreta Andy, un uomo in crisi che coinvolge il fratello in un piano disperato: rapinare la gioielleria dei propri genitori. Il colpo finisce male, e da lì inizia una spirale di colpa, autodistruzione e disintegrazione morale. Hoffman è straordinario: riesce a rendere visibile il caos interiore di un uomo che si sta sgretolando, senza mai cercare di renderlo simpatico o assolverlo. Il personaggio fa uso di droghe per anestetizzare il dolore, e questo dettaglio — alla luce della dipendenza da cui lo stesso Hoffman era afflitto — aggiunge un’ombra inquieta, quasi profetica, alla sua interpretazione. È difficile oggi guardare certi sguardi, certi silenzi, senza intravedere qualcosa di personale, come se la finzione si fosse già confusa con la vita.

Proprio di recente, per scrivere questo articolo, ho visto La spia – A Most Wanted Man, film del 2014 che custodisce l’ultima interpretazione da protagonista di Hoffman prima della scomparsa.
L’attore interpreta Günther Bachmann, agente dei servizi segreti tedeschi: un uomo intelligente, disilluso, stanco. Il film di per sé non ha molto da dire, la trama è abbastanza piatta e i personaggi che ruotano attorno a PSH non reggono il confronto. Ma una cosa mi ha colpito: sul finale, proprio quando tutto sembra risolversi per il meglio, il piano dell’agente Bachmann fallisce. A quel punto, dopo aver sfogato tutta la sua rabbia, semplicemente l’uomo abbassa lo sguardo, incapace di guardare coloro che aveva promesso di aiutare, sale in macchina e va via. Ha perso, di nuovo, e stavolta non riuscirà a rialzarsi. È come se l’attore avesse voluto per una volta prestare un ritaglio della sua esistenza nell’interpretazione. Io negli occhi dell’agente Gunter, stanco di provare a invertire la rotta, ho rivisto l’ultimo ritratto del Philip Seymour Hoffman persona, un uomo stanco di combattere una guerra che non credeva di poter vincere.
Philip Seymour Hoffman non era una star, e forse non ha mai voluto esserlo. Era un attore, e magari sembrerà un pensiero pessimistico, ma credo che dovremo aspettare molto tempo prima di rivedere sul grande schermo qualcuno di vagamente simile a lui.
5 film da vedere con Philip Seymour Hoffman:
- Onora il padre e la madre (2007), su Prime Video
- The master (2012), su Prime Video
- Capote (2005), su Prime Video
- Il dubbio (2008), su Prime Video (abbonamento premium)
- Synecdoche, New York (2008), su Internet Archive
A cura di Matteo Giachi.
Ottimo lavoro