QUEER – Cerchiamo di capire il film più enigmatico di Guadagnino

14 Mag , 2025 - Cultura

QUEER – Cerchiamo di capire il film più enigmatico di Guadagnino

L’ultima pellicola di Guadagnino QUEER, presentata in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia e uscita nelle sale italiane il 17 aprile 2025, ha sconvolto quegli spettatori ancora fermi alla delicatezza e relativa linearità di Call me by your name. Queer è opaco, enigmatico, schivo: passi 2 ore e 16 minuti seduto sulla poltroncina del cinema per poi tornare a casa cercando su Google ‘Significato di Queer Guadagnino’. 

Se dalla copertina si può intuire che al centro della trama vi sia una storia d’amore, la narrazione sconvolge: il film, adattamento dell’omonimo romanzo di Burroughs (scritto tra il 1951 e 1953), scava nelle parti della personalità umana più ombrose: l’ossessione, l’attaccamento, la dipendenza. 

La trama

Il protagonista Lee – interpretato da un Daniel Craig che si spoglia dalle vesti di James Bond – vive a città del Messico nei primi anni Cinquanta, dove si trascina perennemente ubriaco tra un bar e l’altro, in un’atmosfera degradata, dai toni caldi e soffocanti. Lee non accetta le sue inclinazioni, ma allo stesso tempo non si oppone ad esse, vivendo con rassegnata noncuranza rapporti casuali per puro desiderio fisico. L’incontro con Gene (Drew Stark), cambia le carte in tavola. Il giovane ragazzo sembra uscito da una visione mitica, e non può far altro che attirare l’attenzione di tutto il piccolo quartiere, ma anche e soprattutto del protagonista, che, nel vano tentativo di impressionarlo, porta completamente alla luce il suo lato goffo, insicuro ed incerto. Ciò che attrae di Gene è il magnetismo silenzioso che sembra colpire chiunque lo circondi: questa aura di mistero, e al tempo stesso di tacita sicurezza, che si rivela in gesti fermi ma pacati e in sorrisi intriganti

I due iniziano ad incontrarsi spesso, in un rapporto che però non esplicita mai i suoi chiari confini, una frequentazione che eccede dalle dinamiche binarie per la sua difficoltà ad essere inquadrata. Lee non riesce a capire e non osa chiedere se Gene sia queer, e quest’ultimo alterna momenti di apertura a momenti di chiusura, restando sempre indecifrabile, dietro uno sguardo che sembra perennemente innocente. La dinamica fra i due è chiaramente sbilanciata: Lee sembra ricercare la compagnia del ragazzo quasi per autodistruzione, mentre Gene dà l’impressione di tollerare la presenza dell’uomo, che trova a volte piacevole a volte no, più per un tornaconto personale in cui non ha voglia di investire troppo tempo o energie. 

La seconda parte della pellicola abbandona ogni pretesa di realismo per addentrarsi nella dimensione onirica, affidando la narrazione a visioni frammentate e sconclusionate di Lee, in preda ad una dipendenza da eroina. Il protagonista convince Gene a partire con lui alla ricerca della ayahuasca (che gli americani chiamano yage) ovvero una radice allucinogena che può donare il potere della telepatia a chi l’assume. Inutile esplicitare per quale motivo Lee sia così ossessionato dall’idea di trovarla, al punto che si addentra nelle profondità della foresta amazzonica in un viaggio che sembra più un disperato bisogno di conoscere sé stesso, il mondo circostante e Gene. L’esperienza mistica dello yage è una porta che si apre sull’altro, mettendone a nudo le fragilità.

Nonostante l’ultima ora dia l’impressione di essere un po’ un “giro a vuoto” – si susseguono scene quasi fumettistiche che si rifanno al topos della quest – i due riescono a fare uso della pianta, e, allucinati, regalano quella che è – a mio avviso – la scena migliore del film. I due corpi illuminati dal calore del fuoco si muovono in una sorta di danza moderna, fondendosi e separandosi ripetutamente, dando l’idea di un momento quasi trascendentale, che si posiziona al di là del mondo sensibile. La frase di Gene “I’m disembodied” e la risposta di Lee I know”,  pronunciate davanti al falò nel momento di massima vulnerabilità, non sono altro che la conferma del fatto che il corpo, così centrale nella prima parte del film, sembra qua passare in secondo piano. L’abbraccio fra i due, che si sciolgono l’uno nell’altro, è il portale che apre alla dimensione dell’anima, un portale nel quale evidentemente nessuno dei due era pronto ad entrare: ed infatti la mattina dopo Gene scappa, in un’altra scena emblematica che lo vede scomparire nel cuore della foresta, senza un rumore, uno sguardo, una parola o una spiegazione, mantenendo così il carattere elusivo e misterioso del suo personaggio. 

Il commento

Probabilmente ciò che rende Queer così destabilizzante per lo spettatore è la consapevolezza che, tolte le atmosfere oniriche, gli spazi astratti e irregolari e il tempo dilatato, ciò che resta sono sentimenti che parlano direttamente e indistintamente a tutti: la connessione con un’altra persona, il senso di vuoto difficile da colmare, l’attaccamento emotivo, la ricerca e la necessità di risposte che sembrano non arrivare mai. 

Tra chi urla al capolavoro e chi si sta ancora chiedendo “cosa ho appena visto?” forse il film si colloca in una via di mezzo: sicuramente è una delle opere in cui il regista sperimenta di più a livello tecnico e stilistico, incrociando tutti i linguaggi multimediali a sua disposizione. La scelta delle musiche complimenta perfettamente le scene – l’incontro di Gene e Lee accompagnato dalla cover dei Nirvana è già cult – così come i colori e i costumi. L’incertezza di Lee, la sua tensione e desiderio nel ricercare il contatto fisico con Gene, sono risolte in maniera visivamente poetica attraverso la tecnica della sovrimpressione, che dà sfogo ai suoi gesti altrimenti trattenuti. 

Il tema del corpo poi è centrale: la frase “I’m not queer, I’m disembodied” (disincarnato), è chiave nel film, pronunciata dai due protagonisti in momenti diversi della storia, come se ne prendessero consapevolezza in maniera asincrona. L’idea di una connessione che trascende il piano fisico o, se vogliamo ampliare la lente con cui interpretare la pellicola, la concezione per cui il corpo è un semplice mezzo, a volte quasi ingombrante, di cui siamo costretti a servirci. L’esistenza che Lee conduce, un vagare continuo tra bar alla ricerca di incontri casuali, non è tanto dettata dal soddisfare un desiderio fisico, quanto piuttosto un vuoto esistenziale. Il desiderio, nell’opera di Guadagnino, non ha nulla di erotico, ma si colloca piuttosto nello spettro dell’ossessione, della fame di risposte e connessioni. Anche la scena della fusione quasi mistica tra i due protagonisti è, a mio avviso, da leggere attraverso questa lente: il contatto fisico diventa veicolo di verità, un linguaggio usato per cercare di spiegare l’inspiegabile, motivo che rende la scena così dolente e lirica. 

Si tratta di un film che richiede molto allo spettatore, che non offre certezze, che non rassicura né tantomeno spiega: lascia un senso di inquietudine, per cui a tratti sembra incompleto, a tratti sembra invece dire troppo. La sua forza sta sicuramente nell’essere indubbiamente umano: discontinuo, enigmatico, frammentato.

Valentina Bianchi

Immagine di copertina: Rivista Studio


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