Da decenni la narrazione dominante che accompagna la scelta universitaria in Italia — e non solo — si ripete come un refrain ossessivo: “Studia ingegneria, informatica o altre materie scientifiche, così ti garantisci un lavoro stabile”. È un mantra che sembra scolpito nel marmo, che associa il mondo delle STEM — Scienze, Tecnologia, Ingegneria, Matematica — a un futuro sicuro, solido, quasi garantito. Le facoltà umanistiche, invece, sono avvolte da un’aura di precarietà, di incertezza, spesso percepite come un investimento a perdere, un lusso che rischia di trasformarsi in una trappola per chi non ha altra scelta o coraggio.
Questa narrazione nasce da una logica economica e sociale molto radicata, che da decenni premia la produttività, la funzionalità, la misurabilità del risultato. In un mondo dove “Dio è morto” (e sembra pure essere stato sostituito dal Dio Denaro), guidato dalla crescita continua, dalla tecnologia e dalla competizione globale, i numeri sono tutto, e le materie scientifiche rappresentano la strada maestra verso il lavoro e il benessere materiale. Allo stesso tempo, però, questa storia non racconta tutta la verità. Perché da qualche tempo, è emerso un segnale di rottura si fa sempre più forte: cresce, infatti, il numero di giovani che scelgono — controcorrente e con piena consapevolezza — di investire tempo e risorse in facoltà umanistiche. Non per ingenuità o nostalgia, ma per un’esigenza di senso profonda.
Il “posto fisso”, quell’idea di sicurezza e stabilità che ha dominato per generazioni, è diventato un’illusione sfuggente. L’università, invece di essere il biglietto per una carriera lineare e senza intoppi, si rivela un terreno incerto, dove il futuro è un punto interrogativo più che una certezza. In questo contesto, la scelta “pragmatica” delle materie STEM continua a essere motivata da ragioni economiche e sociali, ma perde il suo monopolio sulle aspirazioni e sulle scelte di vita. Molti giovani, infatti, decidono di studiare filosofia, storia, lettere, scienze della comunicazione o arte con la consapevolezza di esporsi a rischi concreti: precarietà, difficoltà occupazionali, salari bassi. Un prezzo alto, ma che si paga per non rinunciare a una ricerca di autenticità.
Questa trasformazione del rapporto tra formazione, lavoro e identità è sintomatica di un malessere più ampio, una crisi culturale e sociale che mette in discussione le fondamenta della società contemporanea. La cultura occidentale, da decenni, ha costruito una stretta relazione tra l’essere umano e la sua produttività. Il lavoro è diventato il metro di valore, dignità e identità di una persona. In questo senso, rifiutare di identificarsi completamente con il proprio lavoro significa rompere con un sistema che troppo spesso riduce l’essere umano a mero “capitale umano”.
Come scriveva Hannah Arendt in “La condizione umana”, la riduzione dell’esistenza umana alla dimensione del lavoro — inteso come attività produttiva e necessaria — rischia di soffocare la pluralità e la ricchezza delle esperienze umane. Arendt ci ricorda che esistono altre dimensioni fondamentali della vita: l’azione, il pensiero, la relazione, lo spazio della libertà. Proprio in questo spirito, la scelta di studiare discipline umanistiche oggi diventa un atto politico, una forma di resistenza culturale che va oltre il singolo individuo.
Le facoltà umanistiche si trasformano così in spazi in cui si coltivano passioni, curiosità e un modo di essere nel mondo che rifiuta la riduzione a funzione produttiva. Sono un rifugio e insieme una palestra per chi vuole mantenere viva la capacità critica e la creatività. Non a caso, tanti giovani laureati in discipline umanistiche trovano la loro strada nonostante tutto, reinventandosi imprenditori culturali, ricercatori indipendenti, educatori, artisti, giornalisti. Una rete sotterranea, fatta di progetti, comunità e iniziative, che dimostra come il valore di un’istruzione non si misuri solo in termini di stipendio o stabilità, ma anche in termini di contributo culturale e umano.
Non si può ovviamente ignorare il fatto che la precarietà, la disoccupazione e la svalutazione delle competenze umanistiche sono problemi concreti e urgenti. Ma il punto non è negare queste difficoltà, bensì comprendere che scegliere ciò che si ama, seguire una passione, è un modo per riaffermare la propria umanità in un mondo che tende a ridurla a semplice utilità.
Ecco perché oggi, più che mai, la generazione che sceglie di studiare in facoltà umanistiche offre una lezione importante: noi non siamo il nostro lavoro. In un tempo in cui professione, ruolo sociale e valore personale sembrano coincidere, ribadire questa distanza è un gesto di salvezza. L’essere umano è molto più di un titolo accademico, di un contratto o di una busta paga. È un complesso di passioni, esperienze, relazioni, sogni. Studiare per passione significa affermare che la vita non si esaurisce nel lavoro, e che il senso della nostra esistenza non può essere ridotto a una funzione produttiva o a un ruolo sociale.
In un’epoca di precarietà generalizzata e di incertezze diffuse, la generazione attuale mostra che il futuro non si costruisce solo sulle certezze materiali o sulle garanzie esterne, ma sulla capacità di ascoltare le proprie inclinazioni, reinventarsi, e trovare un senso profondo in ciò che si fa. E questa è forse la sfida più grande in un contesto che non si mostra in grado di accogliere questa possibilità.
A cura di
Sara Scheda
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